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Italia terzo mondo: l’Europa ci deride, il calcio è un’altra cosa

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L'incontro al vertice fra i rappresentanti dello Stato e Genny "a carogna"
Paolo Maldini al suo addio al calcio venne fischiato da pochi tifosi

Paolo Maldini, fischiato dai propri tifosi nell’ultima gara al Meazza

Siamo il terzo mondo del calcio. In tutto e per tutto. C’è poco da fare: stavolta non ci salva nessuno. Lo scempio andato in scena durante la finale di Coppa Italia è solo l’ultimo episodio di un declino inarrestabile e ormai incontrollabile. L’Europa ci deride, noi stiamo a guardare. Alla maggior parte delle persone – a quanto pare – sta bene così.

APPLAUSI, QUESTI SCONOSCIUTI – Premessa. Non si può e non si deve fare di tutta l’erba un fascio, ma quella che fino a qualche tempo fa era solo un’eccezione è oggigiorno diventata la regola. Il must del calcio italiano. E il confronto con il resto d’Europa è impietoso. Vergognarsi – a questo punto – potrebbe non bastare. Qualche giorno fa Robert Lewandowski ha disputato l’ultima gara con la casacca del Borussia Dortmund davanti al proprio pubblico. Si trasferirà al Bayern Monaco, i rivali storici dei canarini gialloneri. Eppure il “Westfalenstadion” è stato una bolgia: cartelloni, cori e applausi tutti per lui. Al momento della sostituzione tutto il pubblico era in piedi per tributare la meritata standing ovation, con l’attaccante sedutosi in panchina visibilmente commosso. In Italia? Indimenticabile l’ultima gara al “Meazza” di Paolo Maldini, capitano storico del Milan. Stadio tutto esaurito, ma al momento della sostituzione fischi assordanti da parte di quei sostenitori che hanno gioito insieme a lui per le vittorie di Champions, scudetto e quant’altro. I rapporti con la Sud non erano idilliaci, ma almeno in quell’occasione si sarebbe potuto omaggiare a dovere uno dei più grandi della storia del calcio italiano. Non da meno i cugini dell’Inter, capaci di far chiudere la Nord per cori di discriminazione territoriale proprio nella gara che avrebbe dato l’addio all’eterno capitano Javier Zanetti. Il saluto ci sarà lo stesso, il tributo si farà. Ma forse si sarebbe potuto agire in maniera più intelligente.

MADAMA ELEGANZA – E che dire della standing ovation riservata ad Alessandro Del Piero quell’indimenticabile 5 novembre 2008, quando l’attaccante bianconero stupì il “Santiago Bernabeu” con una doppietta e uscì tra gli applausi di tutti i tifosi spagnoli. Tutti. Lui ringraziò con un inchino, in Italia ogni sostituzione viene bersagliata da fischi assordanti da parte dei tifosi avversari. Certo, Alex ricevette il giusto omaggio anche dai tifosi della Vecchia Signora nella gara di addio alla Juventus. Ma questa è un’altra storia. In Italia non accadrà mai di vedere un Messi, un Ronaldo, un Gerrard o un Lahm uscire tra gli applausi degli ultras rivali. Quell’immagine di Del Piero in Spagna è ancora viva e indelebile: è l’emblema di un calcio che qui non c’è, di un rispetto e di una sportività che nel Belpaese talvolta non si riserva neppure ai beniamini della propria squadra. Figurarsi agli odiati avversari.

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Genny a’carogna decide: sì, la finale si gioca!

QUELLA SOTTILE BARRIERA – Basta così? Macché. Il calcio che si vive fuori dai confini nazionali sembra davvero di un altro pianeta. In Inghilterra i tifosi siedono comodamente a pochi metri dai calciatori, divisi solo dalla barriera del rispetto e dell’educazione. Nessun vetro plexiglass da sfondare (vedi tifosi dell’Atalanta che bloccano la sfida col Milan), nessuna bomba carta che esplode poco dietro le due porte e steward presenti quasi solo per formalità. Già, anche oltremanica hanno avuto il loro bel da farsi al tempo degli Hooligans, ma alcuni anni fuori dalle coppe europee hanno fatto cambiare radicalmente l’atteggiamento di chi oggigiorno si reca allo stadio. Utopia per l’Italia. Qui da noi a comandare sono gli ultras: quelli che lanciano motorini dagli spalti, quelli che infangano la memoria delle vittime di Superga e al massimo si beccano una multa irrisoria. Gli stessi che durante la sfida salvezza tra Genoa e Siena costrinsero i giocatori rossoblù a sfilarsi le divise perché indegni di indossarle. La partita poi riprese, ma solo dopo la mediazione di Sculli e il benestare al proseguo della sfida da parte dei tifosi più influenti. Ieri Sculli, oggi Hamsik. Ieri i “tifosi” del Genoa, oggi quelli del Napoli. E’ Genni a’ carogna a scegliere di far disputare la finale di Coppa Italia tra Napoli e Fiorentina. Uno che indossa la maglia con su scritto ‘Speziale libero’, con tanti cari saluti all’ispettore Raciti che perse la vita per svolgere nel migliore dei modi il proprio lavoro. In Europa il rapporto tifosi-giocatori è alla pari, con tante famiglie allo stadio per assistere a uno spettacolo che vale il prezzo del biglietto. In Italia c’è una rigida gerarchia. E al vertice è abbastanza evidente chi comanda.

IL CALCIO E’ UN’ALTRA COSA – Ah, già. Quasi dimenticavamo. Dopo 45 minuti di ritardo rispetto al fischio d’inizio previsto per una gara, è lecito in Italia fischiare l’inno nazionale. Quella melodia che ogni cittadino dovrebbe sentir propria e portare orgoglioso in giro per il mondo. E invece no. Fischi. Assordanti. Non da parte di tutti, chiaro. Ancora fischi. In Francia, quasi contemporaneamente, si disputava la finale di Coppa di Francia: 80 mila persone per la sfida tra Rennes e Guingamp (una città di appena 7mila abitanti), tutti insieme a cantare sia l’inno francese sia quello bretone. All’estero ci sarà pure qualche coro di offese e ingiurie contro gli avversari, ma per la maggior parte del match i tifosi sostengono la propria squadra. In Italia sono solo urli contro i rivali, di tanto in tanto c’è un canto a favore dei propri beniamini. La regola però è un’altra, questa è giusto l’eccezione. Per un calcio che, entro i nostri confini nazionali, assume sempre più le sembianze di una barzelletta. Il calcio è un’altra cosa, non quello a cui ci stiamo passivamente abituando. Quando lo capiremo sarà troppo tardi.

Matteo De Angelis

Fin da piccolo sogno di vivere sommerso dal denaro. A 22 anni sono iscritto all'Albo dei Giornalisti Pubblicisti. Devo aver sbagliato qualcosa.

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