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L’infanzia di Paulo ha prodotto questo Dybala
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2 anni fa|
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Cristiano CorboMarzo del 2003. Il piccolo Paulo, dieci anni appena, entrò in auto e crollà sul sedile. I nervi erano impazziti, in uno stato di costante scomodità. Adolfo, suo padre, come sempre, trovò la miglior maniera di tranquillizzarlo, di trasmettergli la sua fiducia, quella che aveva forgiato tra le sue conoscenze sportive e il suo amore paterno. Uscirono dal piccolo quartiere di Laguna Larga, ubicato a 49 chilometri a sud dalla capitale provinciale, verso il centro d’allenamento dell’Instituto, nel quale lo aspettava la sua prima prova. Fu una presentazione veloce. A Santos Turza, il suo scopritore, gli bastarono dieci minuti per dargli il benvenuto al club.
“Era magrolino, ma uno si rende conto subito di un buon giocatore. Lo dissi a Paulo e a suo padre, che lo avrebbe voluto e che l’avrebbe preso nel club, a patto che cambiasse una cosa. Venne con la maglia del Boca al primo allenamento! Così gli dissi: ‘Nene, non puoi venire qui con la maglia di un’altra squadra”, rivelò Turza, tempo dopo, in un’intervista a Dia a Dia di Cordoba. Così, Paulo Dybala arrivò nelle giovanili dell’Instituto. Ma c’era anche qualcosa che non poteva essere negoziato: Paulino avrebbe dovuto lasciare il suo quartiere per muoversi quotidianamente nella grande città. Per questo, Adolfo lo portava e lo aspettava tutti i giorni, per ben 5 anni.
15 anni, la vita di Paulo Dybala cambia per sempre
A 15 anni, la vita gli cambiò completamente: suo padre morì. Tutto implose attorno a lui. E alla sua famiglia. Era perso, ferito, senza voglia di far nulla. Neanche di giocare a calcio. Trovò solo la forza di prendere la decisione di non ritornare nella città di Cordoba e di restare nel suo quartiere, dove tornò a giocare nel Newell’s, del campionato regionale. “Aveva un rapporto molto bello con suo padre. Adolfo aveva tutto ben in mente. Sapeva che aveva un fuoriclasse in famiglia. Lo faceva per amore, per suo figlio, lo accompagnava sempre. Era molto giusto, gli trasmetteva i compiti che doveva svolgere. Faceva sì che fosse attento. La condotta che aveva, il rispetto e le scelte nate dal calcio. “Ha appreso tutto da lui”, assicurò Gonzalo Ferreira, 28 anni, amico di Dybala, parlando a La Naciòn.
L’Instituto non si rassegnò, però. Non voleva perdere una delle sue grandi promesse e, dopo averlo aiutato per sei mesi, gli chiese di ritornare. Dybala non poté dire di no. Giocare in prima squadra era il suo sogno, e quello di suo padre. Alla ricerca del suo doppio obiettivo, decise di trasferirsi nella ‘pensiòn’. All’inizio fu molto dura, parlava con la famiglia e diceva di voler tornare. Era molto abituato a tutt’altro: al quartiere, alla tranquillità. Andò in una città grande, fu un sacrificio. Sua madre e i suoi fratelli – ne ha due maggiori, di 38 e 34 anni – gli parlavano costantemente e insistevano che dovesse resistere.
Il debutto nel calcio professionistico de La Joya
Dopo due anni dal suo arrivo nella cittadella dell’Instituto, Dybala debuttò nella prima squadra sotto la guida di Dario Franco. Guarda un po’ il caso: un giornalista avvertì l’allenatore che il suo attaccante titolare sarebbe stato espulso, nella prima parte del Nacional B che disputò anche il River e che alla fine fu vinto – all’ultimo respiro – dal San Lorenzo. Vinse un posto Dybala, però. Il riconoscimento fu immediato.
Perché lo chiamano Joya? Partì da Marcos J. Villalobo, nel 2011, che lo definì così nel giornale ‘La Mañana de Cordoba’: oggi Marcos lavora in una cooperativa, ma a suo modo ha fatto un pizzico di storia del giornalismo. E ne va orgoglioso.
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