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Pistorius sfida un cavallo e vince. Ma delle mazzate al cavallo non parla nessuno?


Oscar Pistorius
DOHA, 13 DICEMBRE – Oscar Pistorius non finisce mai di stupire: dopo essere passato alla storia come il primo atleta disabile a gareggiare alle Olimpiadi (sui 400 metri piani, Londra 2012), il velocista sudafricano (che da anni si batte per sensibilizzare l’opinione pubblica sul difficile tema dell’handicap: “la disabilità è uno stato mentale, non una condizione fisica” , ha più volte affermato) si è cimentato in un’impresa senza dubbio spettacolare, e che oggi è riportata sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo: correre, e vincere, contro un cavallo, un purosangue arabo con un nome che è tutto un programma: Maserati.
L’insolita gara si è disputata a Doha, capitale del Qatar, nel quadro delle iniziative previste dalla campagna “Decisamente abile, run like the wind”, organizzata dai Comitati olimpico e paraolimpico del Qatar e sponsorizzata dalla Sasol, compagnia sudafricana operante nei campi dell’estrazione mineraria e dei carburanti sintetici. Davanti a un migliaio di spettatori entusiasti, Pistorius ha battuto Maserati sulla distanza dei 150 metri: partito con 15 metri di vantaggio, il campione sudafricano ha tagliato il traguardo senza farsi rimontare neppure di un metro.
L’impresa, che nel nostro Paese ha riscosso un plauso quasi unanime (sono in pochi a cantare fuori dal coro, e quasi sempre stonando: il Segretario Generale del Coni Raffaele Pagnozzi, ad esempio, ha affermato “queste imprese non mi esaltano, non credo facciano bene al movimento olimpico e paralimpico”), ha goduto di un’enorme risonanza mediatica, e tuttavia rischia, soprattutto oltreoceano, di trasformarsi in un piccolo-grande boomerang. Vediamo il perché. L’idea di correre contro un cavallo non è nuova né fra i velocisti (lo avevano già fatto Jesse Owens, oro alle Olimpiadi di Berlino nel 1936, e Linford Christie, oro a Barcellona 1992) né fra i ciclisti (Claudio Chiappucci e Francesco Moser diedero vita ad un’analoga sfida rispettivamente nel 1995 e nel 1984), ma non è certo questo il problema: il problema è che, così come non è nuova, non è neppure bella (i maltrattamenti, leggi frustate, nei confronti dei quadrupedi sono una costante fissa, purtroppo, di simili esibizioni): significativa (e sacrosanta) in tal senso è la presa di posizione della sezione sudafricana dell’associazione animalista Society for the Prevention of Cruelty to All Animals (Società per la Prevenzione della Crudeltà verso gli Animali, SPCA), che in una lettera indirizzata all’atleta sottolinea la perplessità (per non dire indignazione) suscitata “dalla partecipazione di un eroe locale a una manifestazione del genere, nella quale il cavallo è stato crudelmente ed eccessivamente frustato dall’inizio alla fine della corsa, e il fantino ha dimostrato di non preoccuparsi minimamente del benessere dell’animale”.
Peccato, anche perché Pistorius è un amante degli animali, e di sicuro tutto ciò non gli avrà fatto piacere. “Stavolta non era importante la distanza, né il tempo – ha dichiarato il velocista sudafricano subito dopo la gara – ma il messaggio che si voleva dare: il cavallo arabo è simbolo di forza e resistenza, lo abbiamo scelto per questo”. Pessima scelta: se in Italia, infatti, abituati come siamo al Palio di Siena e ad altre manifestazioni del genere, il “piccolo particolare” delle mazzate prese dal povero Maserati (e, consentitemelo, chi chiama un cavallo così…è un asino) è passato quasi inosservato, non altrettanto è successo in America e in Europa (quella del Nord, in particolare), dove la comprensibile indignazione per la violenza subita dal cavallo ha offuscato proprio il messaggio, facendolo quasi passare in secondo piano. Doppio peccato, quindi, e il perché mi sembra evidente. Forse, considerando anche i precedenti (tutti favorevoli all’uomo: Owens, ad esempio, vinceva anche perché il colpo di pistola dello starter spaventava a morte il povero equino, e ne ritardava la partenza), gli organizzatori della manifestazione hanno pensato che non fosse importante solo il messaggio, ma anche la vittoria, e se lo scopo era di far breccia nell’animo dei qatarioti, chissà, forse hanno avuto ragione loro: tuttavia, se era anche l’ammirazione del resto del mondo che essi desideravano guadagnarsi (e credo che fossero queste le loro intenzioni), non si può dire che gli sia andata tanto bene.
La prossima volta, se ci sarà, consiglierei loro di dare la precedenza al messaggio, e di organizzare una bella gara contro un ghepardo (anche questa non è nuova: Bryan Habana, il rugbista più veloce del mondo, ci ha provato nel 2007, e ovviamente ha perso): d’accordo, quel retrogusto sgradevole da spettacolo circense rimane sempre, ma perlomeno non c’è l’odore del sangue. Se il ghepardo si limita a correre, naturalmente.
Enrico Steidler
