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Ariel Ortega: piedi buoni e testa calda di chi poteva ricalcare le orme di Maradona
BUENOS AIRES, 18 DICEMBRE – Ariel Arnaldo Ortega nasce a Ledesma, in Argentina, il 4 marzo 1974.
Al momento del parto probabilmente il cordone formava già un abbozzo di numero 10. E’ un predestinato il piccolo Ariel, uno di quei talenti puri che se la testa avesse rispecchiato anche solo per un attimo la bontà dei suoi piedi, avrebbe avuto un percorso decisamente diverso. E sarei qua a raccontare la storia di tutto un altro giocatore, magari impreziosita da palloni d’oro e riconoscimenti, da trofei e stima del mondo del calcio. Nelle giovanili del Ledesma era già un diez, si faceva largo tra i suoi coetanei con una classe spaventosa.
UNA PESANTE EREDITA’ – Tutti si strabuzzavano gli occhi, sognavano o eran desti si saranno chiesti, quello lì 14 anni dopo era quanto di più simile a Diego Maradona avesse calcato i campi argentini. Un paragone scomodo, pesante per il giovane Ariel.
Come Maradona ne sono passati pochi davanti alla nostra vista, e lusinghe ed elogi prematuri non devono aver fatto bene a lui che eppure Diego lo ricordava sia fisicamente che tecnicamente. Statura, stazza, addirittura capigliatura. Il numero era quello, il ruolo anche. Gli eccessi e le pazzie, altro punto di tangenza tra i due, non sono stati però accompagnati dalla stessa vita sul prato verde. Forse semplicemente Ortega non era all’altezza del paragone, non lo sarebbe mai stato, nonostante fosse ugualmente un fenomeno. Fu la sua croce.
La continua ricerca di superare i propri limiti, riuscendoci a sprazzi, lo ha solo fatto sprofondare. La sua storia d’amore con il calcio finisce come tante storie morbose e ossessive a specchiarsi in una bottiglia vuota, quasi a beffarsi del suo fallimento, a ricordargli cosa avrebbe potuto essere, dare e ricevere. Invece no, uno con i suoi numeri e la sua classe è ricordato più che altro per le delusioni, le promesse disattese che si è portato dietro girovagando per Nuovo e Vecchio Mondo. Mai espresso totalmente, mai raggiunse l’apice che si sarebbe potuto permettere. Ogni volta che sembrava dovercela fare, arrivava puntuale lo spintone che lo ricacciava giù dall’Olimpo del calcio. E’ un dio caduto, o forse non è neanche mai stato un dio. Fosse un personaggio mitologico greco sarebbe certamente un figlio illegittimo e rinnegato di Zeus, costretto a lottare contro se stesso più che contro gli altri, contro avversari che il più delle volte venivano saltati e lasciati lì a chiedersi dove fosse la bola.
El Burrito, l’asinello, ha annunciato nell’agosto 2012 il suo addio al calcio. La partita di addio si è disputata sabato 15 dicembre. Lui aveva chiesto il Monumental, casa sua e del suo River, dove i tifosi lo osannano e lo amano. El partido de despedida, il match di addio, si è però tenuto nello stadio di Gimnasia de Jujuy. La squadra di “Ortega y amigos” ha vinto 3-2, con una sua doppietta. Al suo fianco tanti campioni e amici del fútbol argentino come Francescoli, Gallardo e Monserrat. “Porterò questo giorno per sempre nel cuore -dice – Sono emozionatissimo e commosso, gracias a todos”.
RIVER ES MI CASA – La sua carriera è una parabola a zig zag, che ricorda il profilo della cresta di una montagna. Come i sui dribbling con cui scardinava le difese per aggiustarsi il tiro a girare, o il tocco sotto. Tutto inizia proprio nel River Plate. Gli osservatori lo pescarono dal Ledesma incantati da quel suo grezzo talento. E’ il 1991 e Ortega ha solo 17 anni. Quella stessa stagione esordisce, l’anno successivo 22 presenze e un gol. Ariel comincia a entrare nei cuori dei tifosi, croce e delizia della curva, protagonista delle hinchas, dei cori. Olè, olè, olè burro! Il ragazzo davvero ricorda El pibe de oro, ha davanti a se un futuro florido e pieno di soddisfazioni. Nei successivi quattro campionati è titolare inamovibile, porta il River a vincere 3 Apertura e una Libertadores. I tifosi lo osannano, lui mette a segno 30 reti in tutto. L’Europa lo vuole, hanno stampati in testa i suoi balletti sulla palla. E’ il momento per Ariel di lasciare l’Argentina e concedersi la chance europea.
DESTINAZIONE SPAGNA – E’ il gennaio 1997 quando durante la sessione invernale di mercato il Valencia decide di accaparrarsi le prestazioni di Ortega. Nella prima stagione segna 7 gol in 12 partite. L’esordio nella Liga è quindi di tutto rispetto, per uno che comunque arrivava dal diversissimo campionato argentino a 23 anni. La stagione successiva incontra qualche difficoltà in più, più per la testa ovviamente che per le qualità. Tende a incapponirsi, a cercare il dribbling a tutti i costi, e passa così per egoista ed egocentrico. Segna solo 2 reti in 17 stagioni, lasciando comunque un bel ricordo tra i tifosi, che lo presero in simpatia fin da subito. Non deve averlo preso in simpatia Stam, a cui rifilò una testata nel mondiale francese del ’98. Espulsione e partita persa perché pochi minuti dopo l’Argentina in inferiorità prese gol dall’Olanda e venne eliminata. Era così Ortega, una testa calda, è proprio il caso di dirlo. Uno di quelli a cui ogni tanto cessava di arrivare sangue al cervello.
L’ITALIA CHIAMO’ – Nel 1998 arriva la chiamata dall’Italia. La Sampdoria lo cerca, lo vuole e lo prende. 23 miliardi al Valencia e 2 miliardi e mezzo all’anno per lui, un contratto da moderno top player. Doveva essere la spalla perfetta per Montella, il rifinitore di classe. Purtroppo sbarca a Genova in una stagione maledetta, quella della retrocessione blucerchiata, nonostante la squadra fosse attrezzata per ben altri traguardi. Ariel mette a segno 8 reti in 27 partite, non bastano per salvare la Sampdoria, ma bastano per entrare nel cuore di moltissimi tifosi, anche grazie a qualche perla spettacolare. I gol e le giocate di Ortega non erano mai banali, sapeva tirar fuori sempre un coniglio dal cappello. Dopo la sfortunata parentesi genovese passa al Parma. Qualche problemino fisico e muscolare non lo aiutano di certo e nella città ducale non lascia il segno. 18 partite e 3 gol, un magro bottino. La nostalgia di casa comincia a farsi sentire e Ortega decide di farvi ritorno, armi e bagagli.
IL RITORNO AL RIVER – Nel 2000 torna in Argentina, di nuovo al suo amato River Plate. Due stagioni, 23 gol in 56 partite e nel 2002 arriva anche il Clausura. Sembra aver ritrovato il bandolo della propria carriera, nonostante polemiche e veleni lo abbiano sempre accompagnato. Cominciano a farsi largo le voci sui suoi problemi con l’alcol, e il comportamento non è di certo sempre professionale. Per lui è di nuovo il momento di cambiare aria, arriva un’altra offerta dall’Europa, questa volta dalla Turchia.
FUGA DA ISTANBUL – Lo compra il Fenerbahçe nel 2002, che gli propone 4 anni di contratto. Per il 28enne Ortega è un’occasione unica e ultima. L’inizio è promettente, segna 5 gol in 14 presenze. Il campione sembra ritrovato finché un giorno di inverno vola in Argentina con la nazionale. In Turchia non tornerà mai più. Ortega diserta il Fenerbahçe in poche parole, accampando scuse banali e clamorose. Voli, infortuni, spossatezza. Insomma, non fece più ritorno. Il problema è che gli restavano 3 anni e mezzo di contratto da onorare e la dirigenza turca avviò un contenzioso. 10 milioni di dollari da pagare, squalifica UEFA per diversi mesi e annuncia così, frustrato, umiliato e perso, l’addio al calcio.
IL RITORNO AL CALCIO GIOCATO E LA SERIE B- Nel 2004 però riesce a risolvere la “grana” Fenerbahçe e torna a giocare, indossando la maglia del Newell’s Old Boys. Due anni nella squadra di Rosario, la città di Leo Messi, che con il suo aiuto arriva a vincere dopo 12 anni l’Apertura. Nel Newell’s disputa complessivamente 53 presenze insaccandola 11 volte. E come poteva mancare il ritorno al River Plate?
Quando sembra rinato però precipita definitivamente. Due stagioni nuovamente a Buenos Aires, un Clausura ma i problemi seri con l’alcol vengono a galla. Simeone, l’attuale allenatore dell’Athletico Madrid, cerca di aiutarlo, gli sta vicino, ma arriva il punto in cui la società non lo vuole più. I tifosi lo acclamavano, se ne fregavano se saltasse gli allenamenti e bevesse la sera prima della partita. Ma un Ortega così non faceva altro che creare problemi nello spogliatoio e allora venne ceduto in prestito, in Segunda Division! Nella serie b argentina viene ingaggiato da una squadra satellite del River, il Rivadavia. Non lascia traccia, ormai amareggiato e deluso da se stesso. Ariel è un 34enne con gravi problemi di alcol e autostima sotto i piedi, seppur fatati.
L’ULTIMO RITORNO E LA PAROLA FINE – L’anno dopo, a fine prestito torna al River, ancora. Due anni più di bassi che di alti, i soliti problemi e le solite magagne. Il carattere non poteva che peggiorare con il passare del tempo. La seconda stagione José Lopez lo scarica definitivamente, stufo di lui. Passa in prestito all’All Boys, rimanendo quindi a Buenos Aires. Quell’anno il River incredibilmente retrocede, Ortega si svincola e passa al Defensores de Belgrano. Alla fine di quella stagione, ovvero ad agosto 2012 annuncia come detto il suo ritiro definitivo.
Scendono quindi i titoli di coda sulla carriera di Ortega. Un dio troppo terrestre, troppo materiale e fumoso per poter aspirare all’Olimpo che con quei piedi gli sarebbe spettato di diritto. Alcol, eccessi, colpi di testa – troppi – in mezzo a gol e giocate sopraffine. Troppo scontato dire che con un altro tipo di cabeza sul collo la sua carriera avrebbe avuto un altro andamento. Forse non ha retto la pressione dei troppi paragoni con Maradona, altro giocatore, altri tempi, altro tutto, nonostante si assomigliassero indiscutibilmente. Forse Ariel avrebbe dovuto provare a essere Ariel, chi lo sa come sarebbe andata. La consolazione è che occupa un posto nel cuore dei tifosi delle squadre di cui ha vestito le maglie, per il suo modo di fare e per le sue perle, pallonetti e punizioni. Adiós Burrito.
Simone Calucci
Twitter: @simoclx
