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Morte Morosini: tre iscritti al registro degli indagati

PESCARA, 10 SETTEMBRE- Sono trascorsi cinque mesi, ma il dolore e i dubbi sono ancora più vivi che mai. Sabato 14 aprile, ore 15.31: è stato questo il tragico momento in cui il calcio, a Pescara e poi in tutta Italia, si è fermato, come il cuore di Piermario Morosini. Era un sabato pomeriggio grigio e piovoso, quando un giovane 25enne calciatore del Livorno, ex promessa del calcio italiano e dell’Under 21 azzurra, si accasciava al suolo nel bel mezzo di una partita di serie B. Vana fu la corsa presso l’ospedale “Santo Spirito” di Pescara, inutili i tentativi di rianimazione susseguitisi per 90′, quasi per un amaramente ironico gioco della sorte, il tempo esatto di una partita. Il calcio italiano, a quasi cinque mesi dal funesto accaduto, sta ancora cercando di metabolizzare quanto accaduto a questo ragazzo, al quale la vita aveva già tolto tanto (i genitori e un fratello disabile) e al quale il calcio, che sembrava potergli restituire professionalmente almeno parte di quello che il destino gli aveva amaramente riservato, ha strappato invece il soffio vitale. Una morte che ha sconvolto il calcio italiano e che ha poi anche aperto indagini per chiarire eventuali colpe. E’ di queste ore la decisione del pm di Pescara Valentina D’Agostino di iscrivere i tre medici (del Pescara, del Livorno e del 118) sul registro degli indagati, in merito alla morte di Piermario Morosini, anticipa probabilmente la richiesta di incidente probatorio davanti al gip.
TRE INDAGATI- Tanti sono, e con l’accusa di omicidio colposo per l’inchiesta della Procura di Pescara. I coinvolti sono i medici sociali delle due squadre, quello del Livorno, Manlio Porcellini ,quello del Pescara Ernesto Sabatini, e il medico del 118 in servizio quel giorno allo stadio di Pescara, Vito Molfese. Nel mirino dell’accusa il mancato utilizzo del defibrillatore. La necessità di aprire il registro degli indagati è nata proprio da quella perizia, firmata dal professor Cristian D’Ovidio, dell’università di Chieti, ingaggiato dal sostituto procuratore Valentina D’Agostino. Nelle 200 e più pagine redatte riguardo al decesso di Piermario Morosini, che la cardiomiopatia aritmiogena si era manifestata con una «fibrillazione ventricolare», concludendo che il defibrillatore andava assolutamente usato. Esattamente la stessa tesi sostenuta da Cristina Basso, dell’Università di Padova, consulente della famiglia del calciatore bergamasco. Non rientra invece nell’inchiesta il primario dell’unità cardiocoronarica dell’ospedale di Pescara: il 14 aprile era sugli spalti dello stadio “Adriatico” di Pescara e aveva tentato di aiutare i colleghi nell’attività di rianimazione del povero calciatore.
LA CAUSA DELLA MORTE DEL “MORO”- Era stata una cardiomiopatia aritmiogena a stroncare la vita di Piermario. Lo aveva stabilito il 2 luglio la perizia chiesta dalla Procura di Pescara e stilata da Cristian D’Ovidio, medico legale all’Università di Chieti: si tratta di una malattia di probabile origine genetica che produce aritmie ventricolari e quindi arresto cardiaco. L’autopsia e le successive analisi genetiche che si sono effettuate a Roma hanno così chiarito l’origine di quella cicatrice visibile sul cuore dello sfortunato 26enne centrocampista del Livorno e che in un primo tempo aveva fatto pensare ad una miocardite. Un segno sul muscolo, anche recente, un problema superato, risolto, ma senza che nessuno se ne fosse accorto. “Credo che a fronte della patologia da cui era affetto, Morosini avrebbe avuto probabilmente delle chances maggiori di salvarsi se dopo il malore fosse stato utilizzato il defibrillatore” affermò all’epoca il cardiologo dell’Università La Sapienza e presidente della Fondazione italiana cuore Francesco Fedele.
A cura di Luca Guerra
