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Steven Nzonzi, ovvero della lentezza

“Perchè è scomparso il piacere della lentezza? Dove mai sono finiti i perdigiorno di un tempo? Dove sono quegli eroi sfaccendati delle canzoni popolari, quei vagabondi che vanno a zonzo da un mulino all’altro e dormono sotto le stelle?”.
A Milan Kundera la lentezza piace. A Milan Kundera, guardasse un po’ di partite, i giocatori lenti piacerebbero un sacco. Statici, rallentati, ondosi. Come Steven Nzonzi, che corre più di tutti ma lo fa nella sua maniera, a piccolo trotto, a passo lento, passeggiando. Ieri era la giornata mondiale della poesia e per usare una metafora Nzonzi è un crepuscolare, un ermetico, conosce il destino umano e quello del calcio e non ci si oppone. Anche se questo è uno sport futurista, anche se Di Francesco gli chiedeva compiti surrealisti, anche se Ranieri gli parla in toni epici. Nzonzi non si scompone, non lo turba niente. E’ consapevole della sua natura e non la affretta. La sua carriera è stata così, come il passo ampio ma compassato di quel giorno a Fiumicino. E lui lo sa bene: “Ciascuno ha il suo percorso, io sono arrivato alla maturità più tardi”.
LO SPILLO IN TRAPPOLA
La lenta parabola di Steven Nzonzi, scritto così, senza apostrofo, inizia a Colombes, dove nasce il 15 dicembre 1988. Figlio di madre francese e padre congolese, originario di Kinshaha, comincia a giocare nel Racing Club de France 92 per poi passare alle giovanili del Paris Saint Germain. In cameretta ha due poster: quello di Jay Jay Okocha e poi, più avanti, quello di Ronaldinho.
Nzonzi ha un sogno e lo coltiva, mentre corre (ops) per raggiungerlo, lo nota Frank Sale, allenatore del CA Lisieux. Il mister lo ricorda come “uno spillo“: troppo magro, troppo esile, troppo leggero per giocare in campionato, come quello provinciale parigino, “dove c’era tanto agonismo e tanta fisicità e lui non aveva il potenziale atletico per continuare“. Inoltre a Parigi fa la punta, ma è troppo lento, non gioca mai, lo scartano. Ci pensa Franck Sale a tirarlo “fuori dalla trappola”: prende un quattordicenne rachitico, in ritardo di crescita, abbandonato dal PSG, per farlo diventare un calciatore.
“Era alto appena 1.50m, era obbligato quindi a giocare d’anticipo, a usare la testa. E se tecnicamente era già molto dotato, aveva invece dei problemi dal punto di vista fisico. Era veramente un profilo atipico” spiega ancora Sale. Appena un anno dopo si sposta al Caen, dove diventa il rimpianto del suo allenatore Franck Dechaume: “Steven aveva delle potenzialità ma non era un gran lavoratore, mentre lui rimaneva uguale gli altri si staccavano, crescevano e miglioravano. Ci siamo posti allora una domanda, valeva la pena puntare su di lui? Voleva diventare veramente un professionista? Penso che farsi questa domanda sia servito anche a lui“. Durante il suo anno a Caen infatti Nzonzi prende 30 cm ma si infortuna regolarmente. “Stava perdendo molto dal punto di vista della motricità – spiega Philippe Tranchant – ma aveva una grande tecnica e tanta intelligenza. Ci è mancata pazienza con lui“. Perchè dopo la stagione al Caen e quella al Beauvais, per Nzonzi arriva l’Amiens, il primo contratto professionistico e la sua definitiva esplosione.
L’ORA DEL TE’ E DELLA SIESTA
Qui mister Allardyce vede in lui i germi del nuovo Viera. A 21 anni lo mette subito titolare, davanti alla difesa del Blackburn Rovers, e gioca qualcosa come 3000 minuti. Poi arriva la chiamata dallo Stoke City e il passo decisivo nella sua carriera. Tony Pulis ne modella il fisico, plasma quel corpo longilineo e ingannatore ai ritmi e ai contrasti inglesi.
Saranno 6 gli anni passati in Inghilterra, al termine dei quali Nzonzi approda a Siviglia, per mano del Re Mida Monchi. Le mani di Unai Emery rende il francese polivalente, completo e regolare, disciplinato in senso tattico come mai prima. Diventa un giocatore totale, un centrocampista da box to box, capace di difendere ma anche di attaccare, pronto a fare spallate ma anche a mettere ordine in mezzo al campo.
Sono queste doti che hanno convinto Didier Deschamps a portarlo in Russia, lasciando a casa l’enfant prodige Rabiot. Controfigura di N’Golo Kantè, soprattutto nella finale contro la Croazia, quando ha preso il suo posto piazzandosi davanti alla difesa, recuperando palloni e smistandoli prudentemente.
E da campione del mondo arriva a Roma, dopo 136 presenze e 8 gol con la maglia del Siviglia. Monchi ha scelto lui per la seconda volta, spendendo 25 milioni. Era il colpo che serviva a dimenticare la delusione di Malcom, era il giocatore che serviva per poter fare a meno di De Rossi.
La realtà, però, è diversa. E tutto è cambiato da questa estate. Non c’è più Monchi, non c’è più Di Francesco, non c’è più nemmeno la maglia della nazionale. Nzonzi è uno dei simboli della Roma di quest’anno e forse l’immagine più emblematica del fallito progetto tecnico del ds spagnolo. Restano una decina di partite per cambiare la storia. Ma serve una scossa, una mossa veloce. Anche da chi ama solo la lentezza.
