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Andy Murray, il più umano dei Fantastici Quattro
Pubblicato
2 anni fa|
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Davide Terraneo
“Troppo dolore”. Lo ha ripetuto spesso Andy Murray nella conferenza stampa straordinaria a Melbourne con cui ha annunciato che questa sarà la sua ultima stagione da tennista. Con la speranza di poter salutare a Wimbledon, ma senza escludere che quest’Australian Open sia il suo ultimo torneo da professionista. Troppo dolore, impossibile da sostenere e da affrontare a lungo, dopo che gli ultimi venti mesi sono stati un calvario a causa di un grave infortunio all’anca. Lo scozzese annuncia il proprio imminente addio tra le lacrime, incapace di iniziare una conferenza stampa troppo difficile da organizzare. Quando poi escono le parole, sono i singhiozzi a interromperle. Un’immagine impossibile da digerire per gli appassionati di tennis, ma che dipinge perfettamente al pubblico il ruolo di Andy Murray: l’essere umano più forte in una generazione di supereroi, o il più umano dei Fantastici Quattro.
Il massacro di Dunblane e il provino con i Glasgow Rangers
Lo scozzese impugna per la prima volta la racchetta a due anni, in una famiglia che ha nel tennis qualcosa di più di una passione: un’autentica devozione. Non a caso anche il fratello Jamie diventerà professionista, pur senza il talento del minore. A soli nove anni l’episodio che gli cambia la vita, nel giorno del massacro della scuola elementare di Dunblane: Andy e Jamie sono tra i ragazzini sopravvissuti all’irruzione di un folle che uccide sedici bambini e un insegnante prima di togliersi la vita. Si salvano perché non sono nella classe sbagliata al momento sbagliato. “Sul momento non avevo idea di quanto fosse grave l’accaduto, l’ho realizzato crescendo. Solo qualche anno fa ho fatto delle ricerche a riguardo, perché non volevo saperne nulla di più” dichiarerà nel 2013 nell’unica intervista in cui deciderà di ricordare i fatti di quel 13 marzo 1996.
A livello sportivo, Andy continua a giocare a tennis fino a dodici anni, vincendo per due volte l’importante torneo internazionale Orange Bowl. Ma la vita da tennista non gli piace, e decide di dedicarsi al calcio. A quindici anni i Rangers di Glasgow gli offrono la possibilità di un provino: è l’occasione della vita, in uno dei due grandi club scozzesi. Ma Murray rifiuta e torna a giocare a tennis. Farà bene.
Il primo britannico dopo 77 anni
Quando lo scozzese inizia a farsi strada nel ranking ATP, il Regno Unito intero gli affida un compito che pesa come un macigno sulle sue spalle: vincere Wimbledon. Il Paese aspetta un profeta in patria da Fred Perry, dal 1936, e da allora ha visto fallire tutte le più grandi speranze. Anche Tim Henman, con il suo serve and volley, non ha potuto nulla contro la maledizione del Center Court: quattro semi finali tra il 1998 e il 2001, quattro sconfitte. Andy Murray migliora di anno in anno e quando nel 2010 gioca la sua prima finale in uno Slam (perdendo contro Djokovic all’Australian Open) un’intera nazione inizia a crederci per davvero.
Nel 2012 arriva la sua prima finale a Londra, 74 anni dopo Bunny Austin, l’ultimo britannico. Ma dopo aver vinto il primo set, Andy cede sotto i colpi di un maestoso e impietoso Roger Federer. La fame di vittorie dello scozzese non si placa: arrivano l’oro olimpico e il primo Slam, lo US Open. Finalista (sconfitto) all’Australian Open e assente al Roland Garros, Murray concentra la propria stagione su Wimbledon. Ancora una volta i fatti gli danno ragione: dopo aver rimontato due set a Verdasco ai quarti di finali si libera agevolmente di Janowicz e affronta la sua nemesi Novak Djokovic in finale. Il 64 75 64 con cui sconfigge il serbo non rende onore alla battaglia di tre ore e mezza sul centrale di Wimbledon, al termine del quale un’intera nazione libera un urlo rimasto in gola per ben 77 anni.
Murray torna a conquistare il torneo di casa nel 2016, sempre in tre set, contro Milos Raonic. La stagione lo rilancia nell’élite assoluta del tennis mondiale, con la vittoria alle Olimpiadi di Rio de Janeiro che lo rendono l’unico tennista nella storia ad aver ottenuto due ori olimpici consecutivi. Nel finale di stagione arriva in finale a Parigi-Bercy, diventando numero uno del ranking ATP per la prima volta in carriera, poco prima di vincere i Finals a Londra. Saranno gli ultimi grandi successi prima dell’inizio del calvario, che da metà 2017 gli impediscono di rendere ai suoi livelli.
Umano, troppo umano
Ripercorrendo la carriera di Andy Murray, due domande attanagliano gli appassionati di tennis. Come ha fatto a vincere così tanto? E come ha fatto a vincere così poco? Il suo gioco per lo più difensivista, quasi privo di colpi devastanti e di giocate da numero uno al mondo non sembra in grado di garantire i risultati che lo scozzese ha ottenuto. Roger Federer ha dalla sua una classe immensa e un rovescio di una bellezza da fantascienza, Rafael Nadal una fisicità prorompente e un dritto devastante, Novak Djokovic un’incisività e una prestanza fenomenali. Murray ha saputo fare della sua abilità difensiva il proprio punto di forza, migliorando durante la sua carriera il passaggio verso la transizione offensiva. La sua capacità di leggere in anticipo le situazioni gli ha permesso di costruire un gioco estremamente efficace, per quanto non sempre esteticamente apprezzabile.
Il difetto più grande dello scozzese probabilmente è stato scegliere l’epoca sbagliata in cui diventare un campione. Le otto finali Slam perse, tutte contro Federer o Djokovic, testimoniano la sua costanza e la sua prestanza fisica. Ma se uno dei migliori interpreti del tennis su cemento della storia non ha mai vinto un Australian Open, fermandosi per ben cinque volte all’ultimo atto, l’anomalia è evidente. Il problema di Murray, sintetizzato in un pianto colmo di rimpianti, è di essere stato un grande in mezzo ai grandissimi. Uno riuscito a entrare nei Fab Four, ma che avrebbe preferito essere in un’epoca senza gli altri tre supereroi. E che sia lui il primo tra di loro a dire basta, pur essendo (insieme a Nole) il più giovane, è la prova di quanto sia l’unico lì in mezzo a essere umano. Troppo umano.
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