Focus
La Dakar è una vergogna, ma per Luca Budel chi lo dice “manca di rispetto”
Pubblicato
6 anni fa|
Editor
Enrico Steidler
Sport Mediaset pubblica un’infinità di notizie con tempismo e professionalità, ma raramente le commenta: agli “editoriali”, di solito, ci pensano i lettori. E’ anche per questo, quindi, che l’articolo di Luca Budel non può passare inosservato. “Dakar, basta con la polemica“ titola il caporedattore della redazione motori a margine dell’ennesimo incidente mortale (a lasciare un vuoto colmabile, questa volta, è il 39enne centauro polacco Michal Hernik), e la ragione del suo veemente J’accuse rivolto a chi “chiede di fermarsi, di smetterla con questa corsa al massacro” è efficacemente riassunta nel sottotitolo: “E’ pericolosa, ma chi la corre è consapevole“.

Michal Hernik
AFFARI SUOI, UNA PRECE – “Di fronte all’ennesimo lutto che allunga il triste elenco della Dakar occorre una riflessione lucida“, ammonisce Budel senza entrare nel dettaglio (facciamolo noi, allora: Hernik è la 63.ma vittima complessiva – spettatori e addetti ai lavori inclusi, consapevoli anch’essi evidentemente – in 36 edizioni, il 27.mo pilota e il quinto dal 2009, anno in cui la scia di sangue si è spostata dall’Africa al Sudamerica). “Il primo – e unico, ndr – punto riguarda il libero arbitrio. Nessuno era obbligato a correre nel deserto africano prima così come nessuno lo è oggi sull’infernale tracciato da percorrere nell’estate sudamericana. (…) Partire da Buenos Aires per questo pilota di 39 anni era il coronamento di un sogno – sottolineato dal marchio della Dakar tatuato sul polso destro – dopo aver partecipato ad altre gare nel deserto. Hernik era perfettamente consapevole dei pericoli connessi alla sua partecipazione (le cause del decesso, però, sono ancora avvolte nel mistero, perchè il corpo “non presenta segni esteriori di un incidente”, comunicano gli organizzatori, ndr) così come lo sono tutti i piloti, professionisti e amatori, che decidono di dedicarsi alle corse“.
GUAI A VOI, DETRATTORI – “Lo stesso discorso vale per chi ogni anno decide di mettere in gioco la propria vita partecipando al Tourist Trophy, sfidando il tracciato dell’isola di Man“, aggiunge Budel facendo un’altra lunga piega intorno alle cifre (255 morti e centinaia fra feriti e invalidi permanenti). Anche correre su quell’asfalto, protagonista di vicende tragiche, è una scelta perfettamente consapevole di chi la compie. Così la maniera migliore per rispettare Hernik è ricordare l’uomo con la sua passione che lo ha portato in Argentina a confrontarsi con altri compagni di avventura. La retorica dei detrattori della Dakar – conclude il caporedattore sgommando a tutto gas sui “soliti moralisti” – sarebbe solo un’offesa alla memoria di Michal”.
Ohibò. Addirittura? Dire che la Dak la Buenos Aires è una sanguinosa boiata, retaggio di tempi in cui l’anello al naso era la regola e non – come oggi – una rombante eccezione, sarebbe “offensivo”? E perchè mai? Lede, forse, i sentimenti dell’industria? Oppure ferisce la sensibilità del business (e di quel mondo, anche mediatico, che gli gravita intorno)? Sarebbe questo il motivo? Di sicuro, prendere a male parole il Tourist Trophy e altri simili baracconi tritacarne non è irriguardoso nei confronti delle vittime, anzi, così come non lo è cestinare senza pietà tutta la stucchevole retorica – questa sì – che puntualmente segue il loro feretro. Egli se n’è andato inseguendo il suo sogno…sfrecciare a 200 km all’ora fra i cammelli era la sua indomabile passione…morì, ma era consapevole…
E già, basta un poco di zucchero e…il sangue va giù. Vero?
Enrico Steidler
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