La Opinión
La Roma trova qualcosa in cui credere
Pubblicato
2 anni fa|
Editor
Lamberto Rinaldi
All’indomani della magica notte di Roma Barcellona, la squadra giallorossa accarezzava per la seconda volta in tutta la sua storia l’ebrezza di una semifinale di Champions League. Come andò a finire lo sanno tutti, ma l’eliminazione con il Liverpool non riuscì a scalfire la convinzione di aver fatto qualcosa di unico, di epocale, forse di irripetibile. Lo sapevano i romanisti, lo sapeva il più romanista di tutti in campo, Daniele De Rossi, che si sbrigò a dire davanti alle telecamere: “Giocare queste partite, giocare una semifinale di Champions, deve essere l’abitudine per l’AS Roma”.
Tre delle spine dorsali della remuntada contro i blaugrana, Strootman, Nainggolan e Alisson, se ne sono andati. I loro sostituti, tra alti e bassi, non sono ancora all’altezza. La Roma è una squadra che, oggi, viaggia ad una media di 1.5 punti a partita, in campionato, di cui solo 4 con le ultime cinque della classifica. Così dai sogni di abitudini europee, si è passati a vivere la partita con il Genoa come “una finale di Champions League” per citare Alessandro Florenzi: “Stiamo facendo dei risultati non all’altezza della Roma. Siamo al di sotto delle aspettative. Dobbiamo essere tosti. Dobbiamo voler giocare il pallone. Dobbiamo avere personalità”.
Personalità, mentalità, testa. Da anni sono questi i problemi che la rosa giallorossa manifesta. Ma chi può trasmettere voglia di vincere? Non la dirigenza, che attraverso le parole del più grande calciatore della storia del club ha fatto capire a inizio anno di non poter e non voler competere per lo scudetto. (“La Juventus fa un campionato a parte, è inutile nasconderlo – disse Francesco Totti a settembre – Noi ce la giochiamo con Milan, Inter, Napoli e Lazio”). Non i calciatori di esperienza, i senatori dello spogliatoio, che come Edin Dzeko pensano all’impresa dello scorso anno come una pura casualità: “Proveremo a ripetere qualcosa di simile, anche se penso che la scorsa stagione non possa essere ripetuta – ha detto l’attaccante bosniaco – Se qualcuno all’inizio ci avesse detto che saremmo arrivati fino alla semifinale, avremmo riso”.
Oggi, invece, a Trigoria non ride nessuno. Né Eusebio Di Francesco, su cui pende una spada di Damocle dal nome Paulo Sousa pronta a cadere al prossimo passo falso, né il direttore sportivo Diego Ramon Monchi, volato a Boston per pianificare con James Pallotta, oggetto di una durissima contestazione nella capitale, le prossime mosse, dal mercato alla panchina. Non si ride, a Trigoria, ma almeno si intravede una speranza. Che arriva, guarda caso, dall’Europa. I tre punti con il Genoa sono oro alla luce del ko della Lazio a Bergamo e il pareggio del Milan con il Bologna. Ma, soprattutto, l’urna di Nyon ha regalato ai giallorossi, come avversario agli ottavi di Champions, il rivale più abbordabile: il Porto di Conçeicao. Non partirà favorita, la squadra romanista, che contro i portoghesi non ha mai vinto. Ma è l’avversario migliore per poter sperare.
Da qui a febbraio, forse, cambieranno tante cose. Intanto c’è qualcosa in cui credere. Qualcosa per far battere il cuore. Anche dove non sembrava esserci più.
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