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Cronaca

Richard Nieuwenhuizen, the show must go on

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Richard Nieuwenhuizen
Richard Nieuwenhuizen guardalinee ucciso in Olanda

Richard Nieuwenhuizen

Vorrei fare una piccola notazione a margine del mio articolo di ieri (Orrore in Olanda: guardalinee ucciso a calci e pugni da tre giocatori sedicenni) e soffermare brevemente l’attenzione non tanto sulla gravità del fatto in sé, quanto sugli innumerevoli tentativi di ridimensionarlo che si nascondono fra le righe di una facile e stonata indignazione.
Persino dopo un fatto di così rara ripugnanza non possiamo fare a meno di notare, e di restarne per l’ennesima volta nauseati, l’indecorosa velocità e i modi preconfezionati con i quali l’industria del calcio (e il suo indotto, di cui noi giornalisti siamo troppo spesso i complici più o meno inconsapevoli) tende a rimarginare le sue ferite, prima cospargendole di parole di circostanza che hanno il potere lenitivo e cloroformizzante della banalità, e poi suturandole in silenzio, lontano dai microfoni e dai riflettori.
Tra qualche giorno, a esequie celebrate, nessuno parlerà più di Richard Nieuwenhuizen, e la muffa crescerà rigogliosa su tutti i proclami e le manifestazioni di solidarietà da un tanto al chilo che siamo stati costretti a sorbirci nell’immediatezza del fatto.
Si tratta, in fondo, e lo sappiamo tutti, del solito cover-up, del buon vecchio insabbiamento mediatico che qui non ha lo scopo di nascondere la triste realtà – sarebbe impossibile – ma quello più sottile di “relativizzarla”, di renderla in qualche misura comprensibile e assimilabile, in modo da favorire (e accelerare) il transito della vergogna dal mondo del calcio a quello dell’oblio.
Così, se è vero che il problema di questo sport non è, come dice Blatter, quello di riflettere i difetti della società che lo circonda, ma semmai quello di non rifletterne (o quasi) le virtù e i valori (eccezion fatta per quelli quotati in Borsa), è ancor più vero che l’impressionante quantità di parole logore e stantie che sono state sprecate in questa come in altre orribili circostanze, rischia di intontirci e di rammollirci al di là di ogni limite tollerabile dalla nostra intelligenza e, soprattutto, dalla nostra coscienza.
Queste parole, che provengono sempre da chi dovrebbe averne ben altre (politici, ministri e ministre, alti dirigenti di Società e Nomenklatura, autorevoli opinionisti e così via) scorrono su di noi come acqua sull’olio, come le lacrime delle vittime e dei loro familiari scivolano sui liquami di un’industria – quella del calcio – che non ferma la produzione solo perché ne scaturiscono scorie tossiche (gli accoltellamenti, gli agguati nei bar, gli striscioni schifosi, la corruzione dilagante, ecc., ecc.) o addirittura letali.
Lo scopo di queste parole, infatti, non sembra essere quello di soffermarsi nelle nostre coscienze, ma quello, assai meno nobile, di stendervi sopra un velo rassicurante e al tempo stesso soffocante. Perché, si sa, show must go on, lo spettacolo deve continuare, anche facendosi largo fra feriti e cadaveri, se necessario.

Ok. Ma se lo spettacolo deve continuare, e continuare così, cerchiamo almeno noi, nel nostro piccolo, di dare un senso a una cosa che non ne ha alcuno, al di là e al di sopra dei lutti al braccio di plastica, dei minuti di silenzio (che si riducono a pochi secondi di applausi fuori luogo) e di chi “coraggiosamente” invoca una condanna dura ed esemplare per tre ragazzi che dovranno convivere con un assassino per il resto dei loro giorni: cerchiamo, quindi, di ricordare il volto sorridente di Richard Nieuwenhuizen, di ricordarlo per sempre, e di conservarlo dentro di noi non come un muto santino, ma come una viva e vivida icona civile, capace di illuminarci, di incoraggiarci e di parlarci con parole molto diverse da quelle di Blatter. E’ il modo più semplice, credo, e più sincero, di fare un po’ di luce in tutta questa oscurità.

Enrico Steidler

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