La Opinión
In un mondo ideale i calciatori non hanno paura di dichiararsi omosessuali
Pubblicato
5 mesi fa|
Editor
Alessandra Santoro
“In un mondo ideale nessuno dovrebbe sentirsi a disagio nel dichiararsi omosessuale, che sia nella vita o nel calcio, ma purtroppo la realtà è molto diversa”.
Sì, la realtà che viviamo è decisamente troppo diversa da quel mondo ideale descritto da Ekdal, calciatore della Sampdoria dichiaratosi contro l’omofobia nel calcio in un video trasmesso nel corso di un evento organizzato al Parlamento europeo per combattere ogni forma di discriminazione nello sport e non solo.
Discriminazioni, disagio, silenzio. Nel calcio, infatti, non esiste ancora una linea netta che separi il calciatore dalla persona. Le dichiarazioni, gli avvenimenti, le notizie, persino i post sui social vengono interpretati sempre in un’ottica di campo. Tutto assume la forma del giocatore, rendendo dunque impossibile all’uomo rompere la barriera che lo separa da chi potrebbe e dovrebbe guardarlo in maniera sincera.
Ecco perché si è così gelosi della propria immagine, così precisi nel controllarla, così attenti a non essere fraintesi, finendo per conformarsi ad un mondo fatto di categorie e stereotipi, in cui difficilmente si comunica e altrettanto difficilmente si affrontano e si superano questioni importanti come il razzismo, l’omofobia, i conflitti di genere.
In molti casi accade che i calciatori non riescano a parlare apertamente della propria sofferenza. Un esempio, è quello di un noto calciatore della Premier League che, a luglio, ha scritto una toccante lettera in forma anonima, in cui ha espresso un vero e proprio senso di disagio e terrore derivante proprio dalla sua condizione: essere omosessuale e non poterlo dichiarare. Perchè sei un calciatore della Premier League e hai troppa paura delle possibili ripercussioni che potrebbe avere quella confessione, sulla tua vita e sulla tua carriera. Un tormento quotidiano che, giorno dopo giorno, diventa un vero e proprio incubo, perché ti senti intrappolato in una vita che non è la tua. Qualcosa, afferma il calciatore, gli impedisce di condividere la sua essenza con i suoi compagni, con il suo allenatore, con l’ambiente che quotidianamente vive.
La lettera è emblematica, e rivela un sistema quasi violento, un calcio che guarda alla comunicazione esclusivamente come a un mezzo per poter difendere la propria reputazione, la propria carriera, la propria forza. Un sistema che trascura l’aspetto umano lasciandolo sempre ai margini, e impedendo così ai calciatori di lasciar trapelare qualsiasi forma di fragilità, e di rivelarsi per quello che sono. Un sistema talvolta banale e superficiale, che circoscrive i propri protagonisti all’interno di una realtà materiale che soddisfa l’immaginario collettivo ma che, spesso, li mette a disagio.
CALCIO-OMOFOBIA: UNA PARTITA ANCORA DA GIOCARE
Per cui, anche nel calcio occidentale, in cui i giocatori sono spesso seguiti da agenzie che ne curano l’immagine e da esperti di comunicazione, un dibattito aperto sulla sessualità sembra ancora non essere possibile.
Se, dunque, è più facile giocare senza parlare apertamente di omofobia e del dolore che si prova quando si viene discriminati e subire insulti e discriminazioni in silenzio per tutta la propria carriera, se è più facile fingere di essere un’altra persona, se tocca scegliere tra essere calciatori ed essere se stessi, probabilmente il sistema è sbagliato. Ma soprattutto, il sistema è figlio di un mondo ancora pieno di pregiudizi, in cui anche uno sport così influente e importante non può ancora permettersi di affrontare un tema così urgente come quello dell’omosessualità.
La verità è che nel calcio, come in tutti gli altri gli ambiti, si è molto lontani da un’idea totale e completa di tolleranza e libertà. Lo conferma l’evitare di dichiararsi omosessuali, non per riservatezza ma per paura degli altri; lo confermano gli insulti razzisti negli stadi, i pregiudizi nei confronti delle donne.
Il sesso debole, il maschio forte e virile: anni e anni di cliché che hanno minato la libertà e la felicità delle persone. Ma, in questo caso specifico, se il calcio è di pubblico dominio, la vita è di chi la vive. Nonostante ci siano stati numerosi passi in avanti e diverse dichiarazioni che lasciano ben sperare (ultima, in ordine di tempo, quella di Carolina Morace, ex calciatrice e allenatrice), tutto ciò che accade nel nostro background culturale lascia intendere che la lotta contro l’omofobia e, più in generale contro qualsiasi tipo di discriminazione, sia ancora una partita da giocare. Perché molti ancora si rifiutano di andare oltre; perché molti ancora non comprendono il tifo o le diversità razziali, figuriamoci l’amore.
Alessandra Santoro
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