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Di Francesco e Monchi falsi profeti – Seconda parte

Il “Messi dei Ds” sembra essere ad un passo dal clamoroso ritorno al Siviglia. Una fuga all’indietro, una ritirata nemmeno tanto strategia, per sancire definitivamente il proprio fallimento. Ramon Rodriguez Verdejo, Monchi per gli amici ma anche per i nemici, ha abbandonato la nave Roma dopo averla portata al collasso. La scorsa settimana abbiamo provato ad evidenziare gli errori di Di Francesco durante l’anno e mezzo di esperienza sulla panchina giallorossa. Quelli di Monchi, come vedremo, non sono da meno.
Un prospettiva senza fine
Per quasi due anni, i sostenitori ad oltranza dell’ormai ex Ds giallorosso hanno sbandierato, in difesa del proprio falso profeta, un presunto progetto a lungo termine, che avrebbe reso la Roma non si sa bene cosa. La progettualità, nel calcio, è l’aspetto principale, e molte società hanno saputo far fruttare adeguatamente l’orizzonte lungo delle proprie scelte. La Roma americana, invece, si è creata un progetto senza alcuna prospettiva finale, di cui Monchi è stato esecutore materiale perfetto. I colpi del Ds spagnolo, da questo punto di vista, non sono mancati, e gli andrà dato atto quando essi porteranno alla società il tornaconto atteso. Trofei? Macché, plusvalenze. Under, Klujvert, Zaniolo, rappresentano elementi importanti, che un vero progetto trasformerebbe in colonne. Quello della Roma anche, ma di altre squadre. Di tutto questo Monchi era consapevole, a tutto questo non ha provato a porre alcun rimedio.
Le scelte “opportune”
Manuale del Ds, capitolo 1: “Mai acquistare un calciatore dopo un mondiale, poiché il prezzo inevitabilmente schizza molto al di sopra del valore”. Svolgimento del tema: 26 milioni + 4 di bonus la cifra sborsata da Monchi per assicurare alla Roma le prestazioni di Steven Nzonzi. Un capolavoro di mercato che non conosce precedenti. Si aggiungano i circa 30 milioni spesi per Cristante, il quale ha almeno il vantaggio di essere più giovane del collega di reparto, e di aver offerto fin qui alcune prestazioni degne di nota, e la cerniera di centrocampo da 60 milioni tondi tondi è al completo. Forse la peggio assortita della storia giallorossa. Ma naturalmente, Monchi è riuscito nell’impresa di fare ancora di più. Con “di più”, intendiamo Javier Pastore, quasi 25 milioni riassunti in due colpi di tacco e l’abbonamento in infermeria. Nel mezzo, una squadra smontata in due anni, con una serie di cessioni illustri che, benché su commissione degli alti dirigenti, portano la firma di un Monchi versione ragionieri. Nemmeno tanto bravo.
Il falso amore per Di Francesco
Falso profeta e falso innamorato. Monchi ha deciso di lasciare la Roma quando ha visto il suo pupillo, Eusebio Di Francesco, messo alla porta dalla società. Complicità o orgoglio ferito? Di Francesco rappresentava per Monchi il profilo perfetto. Giovane, con idee di calcio belle e confuse, pronto a dire di sì a qualsiasi decisione, compresa quella di vendere un centrocampista, titolare fino a due giorni prima, a mercato in entrata chiuso (” Ah ma sì, sta facendo male in Francia, quindi Monchi genio dei Ds ecc ecc.“). Per queste ragioni, lo spagnolo ha difeso l’allenatore ben oltre il ragionevole, tenendolo di forza attaccato alla panchina giallorossa. Vero amore? Vero amore sarebbe stato tutelarlo non solo a parole, ma anche con i fatti. E i fatti sarebbero stati, per esempio, prendere un difensore centrale durante la sessione invernale (oppure non prendere il trequartista più lento del mondo per uno che gioca con il 433, ma vabbè). Invece, buio totale. L’impressione, dunque, è che a Monchi importasse poco di Di Francesco, e molto di veder riconosciuta la propria capacità di intenditore di calcio. Venuta meno quella, il castello di carte, e con esso la voglia di rimanere a Roma, è evaporato come era inevitabile che fosse.
Buona fortuna. Al Siviglia.
