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Dei profeti e delle sorprese: la doppia faccia della Copa América
Pubblicato
7 anni fa|

La Copa Amèrica è partita col botto. La prima giornata del torneo sudamericano ha regalato emozioni e sorprese. Ha vinto il Cile, padrone di casa, solido ed in parte convincente nel match d’esordio contro l’Ecuador. Brasile e Uruguay hanno liquidato, non senza fatica, le pratiche Perù e Giamaica. Messico e Argentina hanno deluso con Bolivia e Paraguay, mentre la Colombia è caduto incredibilmente sotto i colpi del bel Venezuela. Le favorite della vigilia si sono aggrappate ai loro profeti (Messi e Neymar) e hanno arrancato contro squadre dal tasso tecnico modesto, ma ben organizzate. Tante domande, poche risposte.
LA PULCE, IL PARA… GUAY – Meno male che c’è Messi. L’Argentina del Tata Martino si è presentata ai nastri partenza con una della squadre più forti della sua storia calcistica, ma non ha ancora un’identità tattica del tutto chiara. Se si escludono il portiere (Romero) ed i terzini (Roncaglia, sostituto di Zabaleta, è stato preferito inspiegabilmente a Gonzalo Rodriguez), il valore medio della rosa è di altissimo livello. Il profeta dell’Albiceleste è il solito Messi, protagonista di una prestazione eccezionale contro il Paraguay. Gli argentini hanno dominato per sessanta minuti (il possesso palla è stato del 95% in alcuni passaggi dell’incontro), salvo poi essere rimontati – dopo il 2-0 del primo tempo – sul gong. Martino ha pagato a carissimo prezzo alcune scelte incomprensibili (inserire due attaccanti, lasciando scoperta la mediana in sofferenza nel momento in cui il Paraguay stava producendo il massimo sforzo, è stata una follia) e l’imprecisione dell’attacco albiceleste. In certi casi, avere Messi al 100% non è sufficiente.
IL GIOVANE FAVOLOSO – Il Brasile, dal canto suo, è lo stesso di un anno fa. Difesa da film horror di quart’ordine (David Luiz non ricorda di valere sessanta milioni di euro), centrocampo debole e attacco formato da passanti di professione (Tardelli e Fred, ancora loro). Ma c’è una luce in fondo al tunnel, la solita: Neymar. Il match con il Perù – deciso da un gol allo scadere di Douglas Costa – l’ha vinto da solo. Neymar segna, Neymar assiste i compagni, Neymar inventa: chiamarlo profeta è quasi riduttivo. Il percorso di rinascita avviato da Carlos Dunga è ad un punto morto ed il rischio di un nuovo Mineirazo è concreto. Il carisma del giovane capitano non potrà fare la differenza per tutto il torneo. O’Ney predica nel deserto. Il 2-1 finale esalta il suo genio, non certo la solidità di un’armata improvvisata e senza idee.
UN CAFFÈ AMARISSIMO – E poi c’è la Colombia dei Falcao e dei Bacca, dei Martinez e dei Rodriguez, schiantatasi miseramente sul Venezuela, telecomandato sapientemente da Sanvicente (un nome, una garanzia). Il calcio non è una semplice equazione matematica: avere un potenziale offensivo atomico aiuta, ma non è di per sé una garanzia di successo. Se poi gli interpreti sono schierati in campo a caso (impensabile proporre contemporaneamente Bacca, Falcao, Rodriguez e Cuadrado, specie se supportati sulle fasce da Zuniga e Armero), le probabilità di vincere diminuiscono ulteriormente. Il resto l’ha fatto il bel gioco espresso dai venezuelani, ordinato e a tratti spettacolare, il cinismo di Rondon e la pochezza della banda di Pekerman. Il commissario tecnico argentino dovrà bere diversi caffè per riflettere sugli errori commessi e prendere spunto dai frizzanti venezuelani. Il match di Rancagua è il simbolo della prima giornata della Copa América: i profeti predicano in un coro senza voce, le cenerentole sorprendono. Il calcio è anche questo, sopratutto questo.
@antoniocasu_
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