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Nomen omen: George, the Best
Pubblicato
4 anni fa|

Ogni icona che si rispetti porta con sé un soprannome, un nomignolo capace da solo di identificare la sua personalità. Laddove il destino di un uomo si intreccia con quello di una stella, qualunque definizione è racchiusa in una parola o un’espressione. Esiste un caso in cui è stato facilissimo trovare l’epiteto giusto: era sufficiente leggere a voce alta un cognome, urlarlo al cielo e consegnare la sua immagine all’empireo della storia del calcio. George Best, George the Best. Quattro semplici lettere, un pedigree da predestinato.
L’EQUILIBRIO ED IL CAOS – Best era il connubio ideale tra anarchia e ordine. Best non aveva regole: l’unico comandamento era il gusto di divertire, l’unica missione assecondare il suo mito. Impossibile affibbiargli un ruolo. Ala destra, sinistra, trequartista o regista a tutto campo: Best era Best. Punto. Tanto sregolato fuori dal campo quanto ingestibile sul terreno di gioco, il folletto nordirlandese era allo stesso tempo un danzatore ordinato in perenne equilibrio sulle punte. Il fisico minuto non gli impediva di essere stabile nei contrasti, roccioso nell’uno contro uno, arrogante nel dribbling. Ogni avversario era un birillo da scansare, ogni gol una sfida contro se stesso. Best vinceva. Sempre. Tuttavia, ogni genio è accompagnato continuamente da un demone. Quello di Best era l’alcool. Contro di lui, George perdeva. Sempre.
L’INSOSTENIBILE PESANTEZZA DELL’ESSERE BEST– Inutile chiedersi dove sarebbe potuto arrivare: è più importante capire dove è arrivato. Best è stato un mito schiacciato dal suo ego. Il più statico dei rivali, un bicchiere d’alcool, è stato il difensore più arcigno, impossibile da dribblare. Qualche volta ci ha provato, qualche volta c’è riuscito, ma il suo diabolico abbraccio l’ha avvolto fino ad ucciderlo. Eppure, anche se è morto da nove anni, George sopravvive alla sua stessa vita e continua ad emozionare chiunque assista alle sue gesta. È il destino dei migliori. È la storia di Best.You may like
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