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Cinema

Note sparse sulla Mostra del Cinema di Venezia

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Roy Andersson alla mostra del Cinema di Venezia

Roy Andersson alla mostra del Cinema di Venezia

A freddo, dopo alcuni giorni di riflessione, l’ultima edizione della Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia sembra persino peggiore di quanto non se ne avesse percezione sul Lido. Per carità: il Leone d’Oro, che sa quasi di premio alla carriera, allo svedese A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence di Roy Andersson – il cui esordio nel lungometraggio risale al 1970 – ha stupito e meravigliato; il secondo premio al russo The Postman’s White Nights dell’altro veterano Andrej Koncalovskij (classe 1937) ha convinto un po’ tutti; e la Coppa Volpi all’attrice Alba Rohrwacher in Hungry Hearts di Saverio Costanzo – tranne che per certi “cinefili 2.0” della domenica – è la cosa più sacrosanta su questa terra. Inoltre, prosegue la rivalutazione del cinema documentario d’autore (infatti, The Look of Silence del tedesco Joshua Oppenheimer porta a casa il Gran Premio della Giuria e viene definito dal giurato Tim Roth un capolavoro paragonabile alla nascita di un figlio) e i film italiani non mancano di farsi notare sulla scena internazionale (esemplare l’accoglienza a Belluscone di Franco Maresco). Infine, il doppio premio all’indiano Court di Chaitanya Tamhane, aggiudicatosi la corona di Orizzonti e il Premio Opera Prima “Luigi De Laurentiis”. Ma tutto questo non basta e non può bastare. Non tanto a causa del mancato ricambio generazionale – che in verità sta avvenendo, pur con notevole lentezza –, ma in relazione alle evidenti difficoltà di una dirigenza priva di reale mordente.

Più che altro, disturba l’inspiegabile selezione di determinati titoli in gara e non (comprese le sezioni collaterali). È vero anche che in un Festival così grande e dispersivo ci si fa il callo a prendere quel che passa il convento. Questa volta, però, invece delle così dette marchette (quei lavori medi e insignificanti piazzati lì per fare numero) si sono visti troppi film mediocri, troppi autori sopravvalutati, troppo di niente. Un’edizione decisamente sottotono e persino stonata. Delle volte mal gestita e altre volte mal compresa. Per fare un esempio: Michael Almereyda con Cymbeline, rivisitazione in chiave moderna di un testo minore shakespeariano, e Joe Dante con Burying the Ex, commedia horror sugli zombie, divertono ma sono totalmente fuori posto. Entrambe produzioni statunitensi, la prima accolta in Orizzonti tra i prodotti sperimentali (?) e la seconda presentata Fuori Concorso, non possono non far riflettere sulle necessità commerciali e sugli obblighi politici di una manifestazione ormai allo sbando. È chiaro che il cinema migliore non è più di casa in laguna.

Ad ogni modo, si rende necessario segnalare alcuni titoli interessanti e sperare nella benevolenza della distribuzione. Tra questi: gli ambiziosi Birdman di Alejandro Gonzàlez Inàrritu e Il giovane favoloso di Mario Martone, Red Amnesia del cinese Wang Xiaoshuai, il disturbante In the Basement dell’austriaco Ulrich Seidl e The Sound and the Fury dell’eclettico James Franco tratto da Faulkner. Non a caso si citano film che non compaiono nel Palmares: perché «le giurie, si sa, possono coltivare per statuto, le proprie propensioni e le proprie strategie», ha scritto il buon Valerio Caprara; perché non importa quanti premi vinci. Importa quanto ti impegni nel comunicare qualcosa, nel bene e nel male. Questi lavori ci provano, come solo il miglior cinema sa fare.

Alessandro Amato

La redazione del magazine che ha fatto la storia del giornalismo sportivo online moderno

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