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Doping, anche Rasmussen vuota il sacco: “mi sono dopato per 12 anni”

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Michael Rasmussen

Michael Rasmussen

COPENAGHEN, 1 FEBBRAIO – Si rischia, è il caso di dirlo, l’assuefazione. Avevamo appena archiviato la “clamorosa” confessione di Lance Armstrong e lo sconsolato j’accuse di Olivier Rochus, che ora spunta l’ennesima rivelazione-shock: a parlare questa volta è il danese Michael Rasmussen, che in una conferenza stampa trasmessa dalla TV di Stato danese ha ammesso di aver fatto uso di sostanze dopanti per 12 anni, dal ’98 al 2010. “Ho mentito e truffato” – ha dichiarato il noto ciclista – “ora mi sento sollevato di poter smettere di farlo e sono pronto ad accettare le eventuali sanzioni”.

LA CONFESSIONE – Rasmussen, che ha annunciato di aver già iniziato a collaborare con la WADA (l’Agenzia mondiale antidoping) e con le autorità danesi, olandesi e statunitensi, ha elencato le sostanze usate in carriera (testosterone, Epo, ormone della crescita, insulina e cortisone) e ha riconosciuto di aver fatto ricorso a numerose trasfusioni di sangue. Il 39enne ciclista, che nel 2007 (mentre era maglia gialla al Tour de France) fu indotto dalla Rabobank, sua squadra di allora, a ritirarsi dalla competizione per evitare ogni conferma ai pesantissimi sospetti sul suo conto, ha ammesso di aver continuato le sue pratiche illecite anche prima e dopo la sospensione per aver evitato un controllo e ha poi confermato la sua volontà di fare “piazza pulita”. Come? Rivelando nomi, fatti e circostanze alle autorità e a loro soltanto, con le quali, infatti, c’è l’accordo di non rivelare alcun dettaglio o “dato sensibile” alla stampa. D’altra parte, questo è forse l’unico modo concreto per “rompere definitivamente con il passato”, come sostiene Claus Hembo, direttore sportivo della Christina Watches Onfone, l’attuale squadra del ciclista danese, che aggiunge “Noi vogliamo prendere l’iniziativa e incoraggiare gli atleti che si sono dopati a denunciarsi”.

MA NON C’E’ SOLO RASMUSSEN – La cronaca di questi giorni è ricca di notizie dal mondo del doping: si va dagli aggiornamenti sul processo per la Operacion Puerto che vede imputato Eufemiano Fuentes (che ha ammesso di aver lavorato con atleti di ogni genere e si è dichiarato disposto a collaborare: “oggi potrei identificare tutte le sacche di sangue, se mi date una lista posso dire a chi corrisponde ciascun codice senza alcun dubbio, sono nelle condizioni di farlo se me lo chiedete. Peccato che il giudice Julia Patricia Santamaria abbia rigettato la richiesta – presentata dal Coni, costituitosi parte civile – di procedere all’identificazione) alle ultime su Armstrong (“Il doping non ha risparmiato nessuno. Anche Merckx, Hinault, LeMond. Nemmeno Coppi e Gimondi, Indurain, Anquetil e Bartali”), dalla squalifica di 12 mesi per Frank Schleck (sospeso dalle autorità antidoping del Lussemburgo per la sua positività a un controllo effettuato durante l’ultimo Tour de France: il diuretico Xipamide la sostanza illecita riscontrata, lui si dichiara innocente) alle amare riflessioni di Alex Schwazer (che ospite a Le invasioni barbariche su La 7 ammette “Sono stato un idiota, la colpa è solo mia. Dovevo fare diversamente, adesso è troppo tardi, non posso più rifare nulla, non posso tornare indietro con le decisioni che ho preso, per me è molto triste”) per finire, infine, a Leonardo Pavoletti, attaccante del Sassuolo deferito dalla Procura antidoping del Coni (che ha chiesto tre mesi di squalifica) per essere risultato positivo al tuaminoeptano.

E DOMANI A CHI TOCCA? – Difficile dirlo, ma una cosa è sicura. Di questo passo, la notizia non consisterà più nel nuovo nome più o meno illustre da aggiungere all’elenco, ma in quello che ne è ancora escluso. In un futuro forse imminente e neppure così fantasioso, la “bomba” sarà qualcosa del genere: Doping, clamorosa indiscrezione sulla Maxi-inchiesta: sono tutti dopati, tranne uno! Si scatena la caccia per risalire all’identità dell’incorreggibile idealista, ma già serpeggia lo scetticismo. Sandro Donati: “rifate le analisi, non può essere!”. Armstrong:“escludo che fosse al Tour”.
Fateci caso: ormai siamo arrivati al punto che di fronte all’ennesimo nome eccellente coinvolto nello scandalo, la nostra reazione non è più quella di vent’anni fa, quando – sbigottiti – ci si lasciavamo sfuggire un ingenuo ma va? oppure no, non ci posso credere!. Oggi il commento istintivo suona più o meno così ah, pure lui/lei! oppure hai visto? Che ti dicevo?.

D’altra parte, a farci cambiare atteggiamento non sono solo le dimensioni del problema, ma la consapevolezza che quel che emerge è solo la punta dell’iceberg. “Chissà cosa c’è sotto?”, si chiedono un po’ tutti, e le stime confermano le ipotesi più negative: sono almeno 500mila i consumatori di sostanze dopanti solo in Italia nel 2008, per un giro d’affari valutato intorno ai 600 milioni di euro (Fonte: Libera: Dossier Doping e criminalità internazionale, 2008, a cura di Sandro Donati). Chi fa, poi, tutti questi affari? La criminalità organizzata, naturalmente, che in tutto il mondo fattura cifre da capogiro in barba ai controlli a sorpresa, ai passaporti biologici e ai pur ingenti sequestri effettuati dalle forze dell’ordine (che rappresentano sì e no il 15% del mercato totale).

In un simile scenario, reale e surreale al tempo stesso, l’ipotesi di una liberalizzazione del mercato del doping non ha alcunché di scandaloso, né di “provocatorio”, anzi. Molto interessanti, al riguardo, sono le riflessioni del noto bioeticista dell’Università di Oxford Julian Savulescu, pubblicate dal settimanale tedesco Der Spiegel alla vigilia dei Giochi olimpici dell’anno scorso: “La guerra al doping – sostiene Savulescu, che è direttore del prestigioso Journal of Medical Ethicsè destinata a fallire, perché l’incentivo per gli atleti è troppo alto. Il profitto potenziale è elevatissimo, e la probabilità di essere beccati è relativamente ridotta e fondamentalmente gira intorno ai soldi, perché i team più ricchi possono ottenere le soluzioni più avanzate in termini di facilità a sfuggire ai controlli” .“È giusto sostenere che tutti gli sport dovrebbero essere liberati dal doping, ma non è realistico – prosegue Savulescu, il cui ragionamento, che oggi è sempre più condiviso, in altri tempi gli avrebbe sicuramente guadagnato la gogna mediatica – “Per questo dobbiamo ricorrere ad un’altra opzione”. Liberalizzare il mercato, quindi, se da un lato significa sottrarlo alla clandestinità, dall’altro consente un molto più efficace e capillare controllo: sotto questo aspetto, giova sottolinearlo, liberalizzazione non è sinonimo di deregolamentazione.
“Ci sono due modi di utilizzare l’etica – conclude Savulescu – uno è quello che chiamo il modello dell’evangelizzazione missionaria, consistente nel cercare di convincere il mondo di quello che consideriamo buono e giusto. La mia è piuttosto una visione razionalista, cerco di offrire elementi che promuovano il dibattito pubblico. Forse un giorno le cose cambieranno“.
Enrico Steidler

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